Antonio Costa – Cine Critica anno X N. 38-39 Aprile-Settembre 2005

Nessuna realtà da prendere di sorpresa, semmai è sempre la cinepresa di Segre a farsi sorprendere. Un complesso gioco di attori, un ben congegnato dispositivo scenografico, un tessuto testuale portato dagli attori a un ritmo perfetto. Su un canovaccio impostato sul tema gabinetti/gioco dazzardo/usura/urologia, gli interpreti innestano di tutto, dal vissuto quotidiano a Shakespeare e Beckett. Un film che non assomiglia a nessun film italiano e che dimostra come si possa fare cinema con tutto.

Nonostante abbia un regolare visto di censura (n. 98903), Mitraglia e il Verme, pronto dallo scorso anno per la Mostra di Venezia dove non ha trovato alcuno spazio, non ha ancora avuto una regolare uscita nelle sale. Autoprodotto senza contributi di sorta e con un budget quasi inesistente, girato in condizioni proibitive in sette giorni, o meglio notti (bisognava attendere il calare delle tenebre, visto che la ridottissima troupe non disponeva di un ambiente insonorizzato), il film è tuttora senza distribuzione. Con un po' di fortuna vi potrà capitare (o vi sarà capitato) di vederlo in un piccolo festival o in una rassegna specializzata (è passato al Bergamo Film Meeting, a Bellaria e alla Casa del Cinema di Roma). Se però cominciate a vederlo, non lo mollate più fino alla fine. Sapete perché? Mitraglia e il Verme non assomiglia a nessun film italiano che abbiate visto da molto tempo a questa parte. E la sua diversità, la fa valere. Una diversità che sta prima di tutto nella forma. Ciò merita alcune considerazioni, perché Segre, con la sua lunga attività di documentarista e con la sua idea di cinema della realtà (che non va intesa semplicisticamente), viene considerato soprattutto un regista di contenuti.

1. Cinema, a tutti i costi…

Mitraglia e il Verme esibisce la povertà dei mezzi con cui è fatto a scopo dimostrativo. Cosa deve dimostrare? Che si può fare cinema con tutto. E che con il cinema si può fare di tutto. Partiamo dalla prima questione. Mitraglia e il Verme dimostra che si può fare cinema, del vero cinema:
-con una telecamera digitale, prima di tutto, tenuta rigorosamente fissa, come si faceva ai tempi di Méliès;
-con una messa in scena teatrale;
-con attori di teatro che recitano teatralmente;
-con una scenografia e un'illuminazione vistosamente teatrali;
-con un testo teatrale (o meglio con un copione che potrebbe essere anche un testo teatrale).
Il principio, ampiamente studiato per il cinema hollywoodiano classico, secondo il quale è il modo di produzione che determina lo stile può valere anche per la più povera delle produzioni: è questione di metodo e di rigore. Segre applica alla rovescia il principio delle equivalenze funzionali (la storia deve sempre e comunque andare avanti) e, con pochi elementi minimali, ottiene il massimo di effetti. Una volta impostata la storia che va avanti tranquillamente, secondo una drammaturgia che più lineare di così non potrebbe essere, ottiene una enorme quantità di soluzioni sempre funzionali e funzionanti. In particolare, variando la distanza degli attori dalla videocamera, riesce a variare in continuazione composizione e scala dei quadri. Mettendo a frutto le doti degli attori, riesce a evocare e a rendere presenti personaggi che restano rigorosamente fuori campo: Jole, Bruto, famiglie intere di creditori di Mitraglia, tutta la macchina organizzativa dei piani superiori. Con una minima variazione di scenografia, senza alcun ricorso a effetti ottici, imposta una sequenza onirica che difficilmente si dimentica. Insomma, un rigido principio di economia produce una forma cinematografica che si imprime nella mente dello spettatore per la sua novità e la sua forza, anche se le soluzioni adottate sono prima di tutto teatrali. Il motto di Segre potrebbero essere: riprendere al teatro tutto il suo bene, cioè cinema allo stato sorgivo, come lo era appunto la scena “teatrale” di Méliès.
Quanto all'altra affermazione che con il cinema si può fare di tutto, va precisato che una rigorosa applicazione dell'economia dei mezzi ha consentito a Segre di mettere a punto una forma esemplarmente polifunzionale. Mitraglia e il Verme è uno di quei prodotti ideali per finire nelle sale specializzate in digitale. Ci vogliono film di questa forza, di questa durezza per far entrare nel circuito del digitale prodotti italiani. E ci vuole una capacità culturale, prima ancora che politica, di creare grandi movimenti di idee attorno a questi piccoli prodotti. C'è un compito fondamentale che critica e autori sono chiamati a svolgere. O si pensa che il digitale supertecnologico hollywoodiano possa essere contrastato dagli articoli otto o dalla serie mai estinta dei “film carini”? O dagli spot in formato Anica-Agis e dalle furbate degli uffici stampa?
Ma c'è dell'altro. Come è già accaduto con Vecchie, Mitraglia e il Verme può essere riproposto come produzione teatrale: con la semplicità del suo apparato scenografico, può andare dovunque, dai teatri stabili ai capannoni dismessi. E infine un'idea per gli allegri ragazzi di Hollywood Party: Mitraglia e il Verme può essere proposto, senza neanche tanti interventi esplicativi, nella serie “cinema alla radio”. Cari Crespi, Magrelli, Della Casa, Silvestri & C., non sarebbe ora di cominciare a rendere per lo meno udibile il troppo cinema ormai invisibile? Magari, ascoltandolo, a qualcuno verrà la voglia di vederlo; e a qualche altro di mostrarlo.

2. I calcoli di Shylock

Forse la chiave di accesso a Mitraglia e il verme sta in una battuta che il Verme/Stefano Corsi rivolge a Mitraglia/Antonello Fassari: “sembri un pappone, un imbonitore di provincia, un attore caduto in disgrazia”. Come già con Vecchie e ancor prima con Tempo di riposo (e, naturalmente, con Manila Paloma Bianca), Segre continua a fare documentari su attori di teatro. Li scruta, li fa agire: fa loro interpretare i personaggi assegnati e, al tempo stesso, se stessi.
Rispetto a Vecchie qui l'ambientazione è più convenzionalmente teatrale (scenografia, recitazione). Segre fa interagire la luce esplicitamente teatrale (il triangolo di luce che, da destra, scende obliqua e “taglia” il muro degli orinatoi) con la luce (parimenti e altrimenti artificiale) che, dalla parte opposta, scontorna i profili degli attori. Insomma riprende il teatro nel suo farsi: non solo perché gli attori si muovono, recitano, seguono determinati tragitti resi necessari dal tipo di illuminazione della scena e dall'interazione con i pochi oggetti presenti, ma anche perché agli attori è richiesto di partecipare all'elaborazione del copione da recitare. La battuta di Stefano Corsi/il Verme è una sorta di perspective faussée , un po' come quella variante assurda e perturbante nella distribuzione degli orinatoi sulla parete di sfondo nella sequenza onirica.
Ma ecco, in sintesi, il plot. C'è un guardiano dei gabinetti di un mercato generale (il Verme) che ha il vizio del gioco, e, a causa delle perdite continue, è fortemente indebitato con Mitraglia, un addetto alle contrattazioni, che arrotonda le sue entrate praticando l'usura. Il Verme riceve spesso le visite di Mitraglia che è affetto da calcoli renali. I dialoghi che si svolgono durante queste visite, intercalati dai monologhi del Verme e dalle telefonate di Mitraglia, consentono ai personaggi/attori di rivelarsi. Mitraglia è una sorta di Shylock del mercato orto-frutticolo: quando non telefona al suo urologo o alla sua amante, si preoccupa di tenere sotto controllo i suoi creditori insolventi e, all'occorrenza, fa intervenire Bruto, il suo più stretto collaboratore. Il Verme è un depresso-malinconico che rimpiange il gruzzolo che potrebbe avere da parte se non avesse quotidianamente dilapidato in scommesse i suoi proventi e divide il suo tempo tra fermi propositi di smettere e astrusi calcoli su possibili vincite. Ossessionato dalla prospettiva di essere licenziato e sostituito da una porta a gettoni, sogna il proprio funerale, che prende la forma di una beffa nei confronti di Mitraglia. Costui, nonostante qualche parziale successo nella sua lotta contro i calcoli renali, va incontro a sicura rovina: tradito da Bruto, viene accusato di essere il responsabile di un colossale ammanco e pone fine ai suoi giorni suicidandosi.
Tutta l'area semantica urologico-escrementizia è percorsa, con varianti minime equamente distribuite tra la terminologia più triviale e quella scientifica. Ora la trattazione è, se così si può dire, tecnica: calcolo di cm 1,6, a cm 3 dalla vescica; prolasso dell'ano ecc. Ora può assumere accenti epico-lirici, come in questa battuta del Verme: “Pensa un po', se uno di questi giorni, mentre stai lì che ti fai le tue pisciatine, a un certo momento ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta…Te escono dall'uccello tutti quei pezzetti di merda che c'hai nella pancia. TRRRRRRRRRRR… a mitraglia, eh Mitraglia!”. Oppure quasi erotici, come in questo monologo di Mitraglia: “C'è una tecnica americana. Te infilano la telecamera dentro ar cazzo. E poi cominciano a guarda' la situazione. Se il calcolo sta sulla vescica, ma deve sta' proprio all'estremità dell'uretere, allora te infilano un altro tubo che è una specie d'aspirapolvere con attaccato un secchiello. Che è una tecnica molto migliore del bombardamento. Perché ce n'hai uno e quello esplode e diventa `na spiaggia, `na marea de granelli de sabbia che quando passano dar cazzo fa malissimo. Invece questi fanno entra' `sto tubo e l'aspirapolvere comincia a funziona', aspira, aspira, risucchia…e risucchia… risucchia… risucchia tutto quanto. è `na bomba! Come Jole!”.
Questi sbracatissimi dialoghi sono recitati in modo impeccabile, da due attori di evidentissima impostazione teatrale. Il fatto che abbiano dimestichezza come attori sia con Luca Ronconi che con Serena Dandini sterilizza i loro rimesta-menti fecali e conferisce ad essi una grande varietà di accenti. Ma non basta. C'è un lavoro di astrazione sulla scenografia (essenziale) e sulle luci (usate con estrema perizia). Ne consegue che questi orinatoi risultano più asciutti, asettici e silenziosi della Fontana di Marcel Duchamp. E questa storia di perdite al gioco, usura e calcoli renali viene inscenata con un rigore e con effetti di luce degni di un Kammerspielfilm; e con un intreccio di riferimenti shakespeariani che dà una dimensione cosmica al “viaggio allucinante” di un calcolo renale…
Il rapporto sado-masochista tra i due personaggi si accende di coloriture liriche, quasi affettuose (a volte ti trovi a pensare a Vladimiro e Estragone) e i loro profili evocano tipologie clownesche: il Verme sarebbe stato senz'altro definito da Fellini un clown bianco. “Ma io perché ti voglio bene a te?”, chiede Mitraglia. E il Verme: “Lo sai perché? Io c'ho una cosa che tu non c'avrai mai: lo stile. […] Se io cammino, non si sente. Tu, invece, sei un carro-armato. Qualunque cosa fai, fai rumore”.
In effetti, il Verme ha un aspetto filiforme, si muove con leggerezza, parla con voce pacata sia che si autoflaggelli per il suo vizio (“sono un cretino, perché sono un imbecille che va a giocare”), sia che sogni a occhi aperti (“il mondo intero si è messo in fila, per venire a pisciare dal Verme, il migliore pisciatoio del mondo”). Mitraglia al contrario è eccessivo, debordante. Si agita, saltella, emette suoni di tutti i tipi: tossisce, vomita, scatarra, sospira. E soprattutto parla e parla… dei suoi calcoli, della sua vescica, del suo uretere.

3. Oggi non si vola

Inutile rifarsi a precedenti; e comunque non per individuare improbabili fonti. Certo, suggestioni non mancano. Si pensa a Der Letzte Mann (1924) di W.F. Murnau: privato della sua splendente divisa, l'ultimo uomo” viene degradato dal suo ruolo di portiere e relegato a fare il custode dei gabinetti, nei sotterranei dell'Atlantic Hotel, dove si trasforma in una sorta di larva informe. Identificatosi con i padroni grazie al luccichio della sua divisa, il portiere, una volta che ne viene privato, conosce la reale dimensione della dialettica servo-padrone e ne viene letteralmente annichilito. Oppure si ricorda La caduta degli angeli (Gdy spadaja anioly, 1959) di Roman Polanski, la cui protagonista è una vecchia custode dei gabinetti pubblici. Mentre il tempo è scandito da gocciolii e scrosci, la vecchia evade attraverso la grata-lucernario nell'altrove dei ricordi e dei sogni (qui invece il Verme dice: “E non c'è niente, ma proprio niente da sognare. C'è solo da abbozzare. Tutti i giorni, tutti i momenti abbozzare. “Lui sì che ce l'ha fatta, il Verme!””). Possono venire alla mente anche il sogno di Accattone o I pugni in tasca, anche se, volendo proprio trovare qualche analogia, andrebbe cercata nello humour nero della profanazione di Bellocchio piuttosto che nella tenera, disarmante elegia della sequenza onirica pasoliniana. Si potrebbe proseguire con i riferimenti, magari teatrali dato il background professionale dei due interpreti e co-sceneggiatori: paradossali e derisori quelli a Shakespeare, al Giulio Cesare (il nome del più stretto collaboratore di Mitraglia è Bruto) e al Mercante di Venezia.
Ma non è questo che conta. La videocamera viene costantemente tenuta a un grado zero di scrittura filmica. Il compito della cinepresa (non più scatenata come quella di Freund-Murnau, ma come non mai incatenata a un unico punto di vista) è di annullare qualsiasi pretesa di soggettività. Non c'è più nessuna realtà da prendere di sorpresa. Semmai è la cinepresa a farsi sorprendere da quello che le passa davanti. E quello che le passa è un complesso gioco d'attori, un ben congegnato dispositivo scenografico – illuminotecnico, un tessuto testuale portato dagli attori a un ritmo perfetto. Su un canovaccio impostato sul tema gabinetti/gioco d'azzardo/usura/urologia i personaggi/attori innestano di tutto: frammenti di dialoghi già recitati, tratti di caratteri già interpretati, reminiscenze varie (da Shakespeare a Beckett). Ma il tutto viene omogeneizzato in una lingua che di teatrale ha solo l'ottima modulazione della voce degli attori e di cinematografico quel tanto di romanesco che un buon attore italiano deve padroneggiare (sul palcoscenico come al cinema e in tv). Gli attori dicono le loro battute su merda e pisciatine con tecnica impeccabile (ma senza averne l'aria) si trascinano in uno spazio beckettiano parlando una lingua rimasta senza i conforti della letteratura; una lingua che sembra inventata da un Beckett che nulla più sa di Cacciaguida e di Ulysses
il mondo lo conosce da quanto ne dicono i telegiornali (“Il tavolo delle trattative è aperto, la negoziazione è ancora in corso”): da tutto questo la videocamera di Segre si lascia sorprendere e ci fa sorprendere